Cuzco. 17

settembre 30, 2010

Cuzco. 30.09.2010

Oggi pensavo all’andare. Al viaggio proprio come andare, come attraversare, come mettere un passo dopo l’altro o stare fermi in un posto e viaggiare comunque. Con un libro, con la testa, con gli occhi.
Ci pensavo dentro al Tempio di Qoricancha (tempio dorato), il tempio del Sole inca a Cuzco, sopra il quale gli spagnoli ci hanno costruito il Convento di San Domenico. C’era poca gente, mi ero perso Claudio non so dove, e giravo lento fra un chiostro di una bellezza rara, i grandi muri incas e qualche stanza. Una tarda mattinata in cui la concezione del tempo, li’ dentro, ha assunto significati altri.
Pensavo ai primi ventitre’ giorni di questo viaggio, fatti di spostamenti continui, di un andare di notte e di un arrivare alla luce dell’alba con gli occhi stanchi e le ossa della schiena che fanno male. Alla tanta gente che ci accoglie, con cui parliamo, beviamo, mangiamo. Con cui giriamo fra sobborghi e centri, fra periferie e zone polverose.
E, invece, dentro quel chiostro, forse per la prima volta da un mese a questa parte, e’ come se ci fosse una forza legata allo stare, al non muoversi, alla sosta. In sostanza, alla pausa all’interno di un viaggio. C’e’ un bel libro di Antonio Pascale a riguardo, si intitola Non e’ per cattiveria, edito da Laterza. E racconta di un viaggio in Basilicata, ma piu’ che del viaggio, delle sue pause appunto.
Ecco, questi giorni e questo chiostro in particolare, in questa mattinata, hanno a che fare con il fermarsi, dopo tutto quel correre, quel prendere gli autobus, informarsi sugli orari, quella strada a volte asfaltata e a volte dissestata, quel salire e scendere, quello spostarsi sempre verso nord, quella valigia mai del tutto svuotata, quei letti un po’ cosi’ dove appoggiarsi per riposare qualche ora.
La sosta ha tutte altre regole. L’andare per certi versi e’ piu’ facile, pensi meno, o almeno pensi a cose pratiche, a cose legate alla contingenza dell’oggi. La pausa ti mette di fronte a te stesso, al luogo fermo che vivi, alla quotidianita’ dello stare. E li’ e’ tutta un’altra storia ed e’ un viaggio anche quello, forse. Anzi, e’ probabilmente il viaggio vero e proprio, quello che ha a che fare con le malinconie, le inquetudini, le insicurezze. Con tutto quel fardello che ti sei portato dietro prima di partire, che magari ti dimentichi di avere mentre stai andando, ma che sai sempre che c’e’, sotto pelle. E appena ti fermi esce tutto d’un colpo e le gambe ti tremano un po’.
Poi esco in quello che, ad occhio, dovrebbe essere il giardino del tempio. C’e’ un sole che mi fa strizzare gli occhi. Una bambina piccola che corre e salta sopra una pietra inca. Vedo Claudio e lui vede me.
“Dove sei andato a finire?” mi chiede.
“Mi sono perso un po’” dico.
Lui mi sorride e penso che abbia capito.
“Fai queste scale” mi dice da sotto.
Io comincio a scendere e un senso di vuoto mi prende le gambe. Sono scale ripide, ma non e’ quello. E’ l’assenza di protezione, non c’e’ un corrimano, non c’e’ dove appoggiare il palmo. Per sentirsi sicuri. Solo scalini di pietra. Scendo piano.
“Che roba, eh?” mi dice guardando le scale.
“Un po’ come il chiostro. Quel senso di vuoto” dico io.
“Gia’. Un po’ come il chiostro” conferma lui. E capisco che anche per lui questo luogo, in questa tarda mattinata di fine settembre, ha a che fare con qualcosa d’altro.