Gli scalatori della luna – 2° parte
di Mauro Daltin
Camminate e tutto d’un colpo butti l’occhio fra due intercapedini e intravedi una vecchia vestita di nero seduta su tre scalini concentrata a fare le parole crociate con il sole che gli batte sulla testa e gli arriva di sbieco sugli occhi. Vi fermate, la guardate. Scendete lungo la breve stradina che vi conduce a lei.
Lei non si accorge di voi. La guardate bene e sembra una piuma che possa volare via da un momento all’altro. È immagine sacra, iconografia di qualcos’altro che non ha a che fare con te, con voi, con questo mondo. È delicatezza allo stato puro.
Solleva la testa un attimo e vi saluta e vi sorride. Punto. In quel sorriso c’è tutto, pensi.
Iniziate a parlare, vi fa accomodare su uno scagnetto di legno che si premura di tirare fuori dalla sua casa. Vi offre un caffè. Vi fa entrare nel soggiorno e vi mostra le fotografie dei nipoti. Spiega che a lei, quella casa, piaceva più prima, quando il camino era nell’angolo e quando non c’era quel divano che occupa metà lato della stanza.
Esce, si siede e parla.
“Sono sempre stata qui. Ho 89 anni. Qua mezzo paese se ne andava in giro per il mondo a vendere oggetti di legno. Anche io, in Trentino, mi piaceva lì, sopra Cavalese. Eravamo in tanti di Erto. Altri a Genova, altri in Slovenia e Germania” dice.
Si tocca i capelli bianchi dove si è incastrata una mosca. È vestita a più strati, tutti di nero.
Parla di gente che se ne è andata chissà dove per cercare lavoro, per vendere qualcosa, e tu pensi a Caterina la contrabbandiera che a metà Settecento camminava per ore ed ore assieme agli uomini per trasportare tabacco, sale, spezie da una parte all’altra proprio di questo pezzo di terra del Friuli. Chissà perché associ questa gente di Erto ai contrabbandieri di qualche secolo prima, ma in fondo te li immagini che da qui partivano e salivano in montagna con gli asini carichi di ogni ben di dio e si facevano giornate di cammino per cercare di battere la miseria.
“In Trentino stavo bene, capivo il loro dialetto. Solo che avevo fame e andavo di casa in casa a bussare alle porte per chiedere se mi potevano dare un tozzo di pane. Mia mamma diceva di aspettare, ma io correvo e bussavo. La sagrestana del paese una volta mi disse che il pane me l’aveva dato già ieri. Io le risposi che anche io mangio ogni giorno, proprio come lei. Non ci andai più a bussare a quella porta” continuava la Gigiotta, così quella dolcissima vecchia aveva di soprannome.
La vedi piegata con la schiena, a volte allunga le gambe e gesticola con le mani. Ti pare di una fragilità assoluta, come se fosse figura di cristallo che possa spezzarsi da un momento all’altro.
“Vi racconto la storia di Tin, quel povero diavolo che tutti, in tutta la valle chiamavano così abbreviando Costantino. Era un suonatore di fisarmonica e andava in giro per tutte le osterie e le piazze insieme ad altri paesani a suonare. Era conosciuto da tutti e tutti gli volevano bene. Tin era il fratello di mio nonno, ertano che lavorava in Trentino come in quel periodo tutta la mia famiglia. In fondo era appena passata quest’ultima guerra” disse.
Tu pensi all’Iraq e all’Afghanistan, i conti degli anni non tornano e ti accorgi che per lei quest’ultima guerra è proprio quella lontana 65 anni fa, come se tutti questi anni passati non fossero per lei che un soffio, un respiro solo un po’ più profondo.
“Era una giornata di festa, gli uomini erano rinchiusi in osteria tutto il giorno a bere e giocare a carte. Bevvero fiumi di vino. Venne sera e io non volevo andare a dormire da sola perché volevo aspettare il nonno per andare in camera. Li aspettai fino a mezzanotte passata. Dall’osteria ogni tanto si alzavano canti stonati e qualche nota buttata a caso. Arrivarono a casa e il padrone salutò tutti e andò a letto. Anche mio nonno. Tin volle andare a dormire nel fienile perché diceva che lassù, sul fieno, lui stava bene, poteva allungare le braccia e le gambe. Ci alzammo tutti presto perché era giornata di fienagione. Mio fratello andò al fienile a chiamare Tin che ancora non si era visto. Andò in cima al fieno e vide Tin stravaccato a pancia all’aria. Immobile. Tin, lo chiamava, dai che bisogna andare. Ma Tin non dava segni di volersi alzare. Il fratello chiamò il nonno che arrivò alzando la voce che mi sembrò che la stalla tramasse. Salì in cima al fieno e lo scrollò. Il nonno capì che Tin era morto. Sarà stato tutto quel vino, insieme alla boia del fieno, non so se mi capite, quel gas che il fieno emana appena tagliato. Ecco. Sta di fatto che Tin era crepato proprio in cima lassù, disteso come un re. Suo fratello preparò la bara, organizzò il ritorno a Erto. Ma il padrone della casa non volle sentire ragioni. Tin resta qui da noi. Non si muove da qui. Non ci sono discussioni. Tutti lo abbiamo conosciuto, tutti gli volevano bene e la gente della valle se lo ricorda come un brav’uomo e un suonatore di fisarmonica. Mio nonno provò a convincere il padrone che Tin era di Erto ed era giusto seppellirlo là, nella sua terra. Ma non ci fu nulla da fare. E così Tin è rimasto sempre lì, in Trentino” racconta.
La Gigiotta continua a parlare, come fosse un’urgenza. Accavalla storie di paese, della sua famiglia, dei suoi nipoti, parla della stalla del vicino di casa, della sua giovinezza. Ci parla in tedesco e sloveno perché da ragazza andava a vendere un po’ dappertutto e bisognava arrangiarsi in qualche modo.
“Ho avuto una vita serena, sono stata bene, anche da giovane” dice.
Vi lasciate con lei che canta una canzone che ha a che fare con il Papa, Roma e l’amore, ma non ti ricordi più come andava a finire. Lei sorride, vi abbraccia, vi dice di tornarla a trovare, che la prossima volta vi potete fermare anche a dormire, che lei due letti ce li ha, niente di lussuoso, sottolinea.
Continuate a camminare fino all’unica osteria aperta. Di fronte, sul muro, accanto a una locandina con il faccione di Augusto Daolio, c’è una scritta firmata da Mauro Corona: “Tendo l’orecchio e sento il passo dei ricordi della perduta casa. Solo una pietra cerco”. E poi appena più in alto, una frase di Josif Brodskij: “Se c’è qualcosa può sostituire l’amore, questa è la memoria”.
Tutto torna. Fuori dal paese incontri rocciatori che salgono come cavallette queste montagne friabili. Qualche sasso potrà anche cedere, pensi. Come la vecchia di prima, anche loro sono zecche che si attaccano alla terra, ci entrano dentro, la grattano. Ne succhiano il sangue e il cuore. Stando lì, fermi, sospesi nel vuoto come marionette. Non sembrano impauriti da nulla, e salgono felici. In fondo scalare la luna deve essere proprio una bella sensazione.